ENTRATA

Le opere di un uomo tracciano spesso la storia delle sue nostalgie o delle sue tentazioni, quasi mai la vera storia, soprattutto quando pretendono di essere autobiografiche. Nessuno ha mai osato dipingersi come è.     (A.C.)


La femme inconnue

1940, Francia. Immagini di persone in fuga……esse sfilano rapide sullo schermo, alla controra, dinanzi ai miei occhi obnubilati dai piacevoli postumi di un’influenza…

Il periodo è di mio attuale e morboso interesse non tanto per i ben noti accadimenti storici quanto per ciò che la letteratura francese ha, a cavallo di quegli anni, dentro e al di là della linea che divide bene e male, dato frutto ad opere di sublime e necessariamente tragica sensibilità.

Improvvisamente qualcosa mi tira via dal torpore…è la breve immagine, pochi fotogrammi, di una donna dagli zigomi pronunciati e soprabito chiaro – fissa la cinepresa tenendo stretta a sé con la mano sinistra una borsetta, con la destra quelli che sembrano fascicoli, incartamenti, tessuti o altro – le cose a lei più care. Le altre, forse, sono nel carro che la precede. Chi era, come, con chi e quanto visse, non lo saprò mai. Ma io adoro la sua immagine, da me rubata alla spietata indifferenza della storia.

È per questo che la catturo.

La bellezza, talora, ha tre genitori – i loro nomi sono questi:

Forma, Attimo, Gesto.


La poltrona

Di rado scrivo di getto, direttamente su questo maledetto apparato…ma questa volta un’eccezione, dettata da caldo, umore..da una pulsione che ha le sue vere radici nel passato distante, quello che si allontana e si avvicina allo stesso tempo…nel corso degli anni, è così! più pensi agli eventi lontani più essi si rafforzano…tanto da diventare reali quanto le banalità che ti circondano. ma perdo il filo…dicevo, mi è venuto in mente il momento della distruzione di una poltrona…pochi anni fa, era buio inverno, non uscivo quasi mai…certo, voi non sapete…dopo Il Trasloco ho tanto bevuto e vissuto tra scatole mai aperte e cose che sapevo avrei dovuto eliminare, pena il soffocamento emozionale, più che fisico. Ebbene, oggi mi domando: perché feci fare a quella poltrona una fine così cruenta, segata spietatamente a pezzi da un mio efficace amico, quello con cui suonavo,…per poi essere depositata poco alla volta, a tarda sera, di nascosto..nel camposanto delle cose qui vicino, in questa strana zona industriale dove non si produce niente? Certo che lo so! e lo sapevo anche prima..faccio finta, come quando mentendo guardo in basso o di lato mentre fumo nel vuoto. Sissignore! arte e menzogna non sono poi tutte lì, nel fare finta..?! Comunque. Dietro quella poltrona mi nascondevo da bambino con mia sorella, quando sentivo gridi per casa…erano i brevi anni della troppo giovane famiglia, quelli della fioca lucina rosa, delle ombre cinesi, della moquette…un lago di chiazze verde petrolio e marcio, dove scorgevo profili di fluttuanti scure ricciole alghe…me la ricordo bene..ne vorrei un pezzetto..

Della defunta poltrona avrei potuto invece salvare qualcosa..amputarne un arto, o estrarre una di quelle borchiette brunite..ma non l’ho fatto. Rimane solo una foto del suo dorso…ma sullo sfondo c’è Ettore che suona, e anche lui non c’è più e il ricordo di lui voglio tenerlo solo per me, insieme alle sue dolorose poesie.

…et que plus rien n’existe


Euforia?

una sorta di euforia, passeggera, come sempre…pensieri che fluiscono per poi diradarsi in rigagnoli di immagini, profumi, idee…questo stato comporta difficoltà di concentrazione, come se la mente sfuggisse all’ingombrante controllo della cosiddetta ragione. Ovunque cada lo sguardo…oggetti, riflessi, ombre… nasce una suggestione, una forte volontà di espandersi senza più attendere…il circostante si inchina al cospetto dell’Io desiderante, smanioso di perdersi nel dominio della propria fantasia e nella volontà di estraniazione rivolta verso un punto indefinito che si nasconde tra striduli versi di gabbiani affamati…

planano su magazzini dai muri scrostati ed imbrattati..

la notte, col suo oscuro splendore, finalmente illumina…


Stasi, non sospensione

 

Ho sempre lasciato molte cose in sospeso. Dico molte per non dire tutte. Ma la parola tutto non mi piace, mi sa di assoluto (l’unico assoluto è la morte, la temo), mi sa di folla (tendo ad evitarla, è appiccicosa, riesce ad ungere anche durante il mio amato inverno). Torno al punto: in questi giorni la parola sospensione sembra entrata in gran voga, sono certo che verrà usata sempre più spesso. Voglio rifletterci sopra, evitando di assorbirla per poi impiegarla durante le mie conversazioni, per assurdo molto più frequenti ora rispetto a quanto accadesse un paio di mesi fa. Ecco, sono ad un passo dal trarre amare conclusioni, quindi non divago e proseguo nella ricerca di una parola che mi garbi di più. Eccola, mi è apparsa, si è manifestata. Essa è greca, non latina.

στάσις

Consulto il mio vecchio vocabolario Gemoll e, come al solito, il greco antico riserva non poche sorprese. Stasi significa sì piantare, pesare, star fermo…ma anche quasi l’opposto! Ossia sollevazione, dissidio, contesa, addirittura sedizione. Del resto ci si può ribellare anche rimanendo costantemente saldi nella propria immobilità, lasciando che il flusso di superficialità e di succube omologazione ti scorra accanto, senza intaccarti. Come un esile, brunastro scoglio circondato da un mare che non riconosci neanche più. La stasi è quindi ambivalente. Nessuna certezza, solo affascinanti dubbi e possibilità. Se non fosse arrivata la Peste oggi sarei stato in ufficio e, forse, non avrei mai conosciuto l’intrigante ambiguità di questa parola.

(In)conscia coincidenza: dopo alcuni suoi saggi e brevi racconti, ho di recente cominciato a leggere le “Poesie statiche” di Gottfried Benn, una delle menti più interessanti in cui mi sia imbattuto di recente. Ma perché poi guardare invano nel presente quando sento che il passato ha ancora tanto da darmi?

 

 


In fondo, quando

In fondo, quando ripensiamo al passato remoto, proviamo una sensazione simile al richiamo del peccato in età matura. Una sorta di sottile ma insistente desiderio che senza freni si tramuta poi in rimorso: quello di aver sì voluto fare più o meno le stesse cose, ma in modo leggermente diverso, ammettendo così l’incapacità di non aver saputo manovrare a nostro piacimento gli accadimenti al tempo generati dal destino e quindi, insieme ad essa, la parziale vanità delle proprie azioni. Nel campo dei sentimenti, a distanza di decenni, ci illudiamo di aver compreso perché questo o tal altro rapporto non abbia funzionato, in genere attribuendo unicamente a sé stessi errori che in parte, ma inevitabilmente, sono congeniti alla vita relazionale in sé.

Tutto questo può comportare la generazione di sensi di colpa e di una pericolosa frustrazione. Pericolosa in quanto inestinguibile: poiché, giunti ad un certo punto, quelli che una volta erano i consueti mezzi per smorzare pene ed addolcire l’esistenza risultano non essere più utilizzabili – spesso per ragioni oggettive, psicofisiche, ma anche per pura vigliaccheria, fedele e silenziosa compagna del progredire degli anni. Per quanto possa sembrare un controsenso, lo sfidare in piena coscienza malattie e morti accidentali è sicuramente più naturale, istintivo ed eccitante in giovane età, rispetto a quando la fine dei propri giorni comincia, se non ad essere considerata prossima, quantomeno ad intravedersi.

Si soffre quindi per il trascorrere del tempo, non essendo in grado di accettarne l’inevitabile decorso – e, conseguentemente, nell’assurdo tentativo di sfuggire alle leggi della natura, ci si tuffa con foga nel vasto e tranquillo mare dei ricordi. Cosa di certo piacevole che però, alla lunga ed inevitabilmente, conduce solo a rifugiarsi nel rassicurante vicolo della solitudine e dell’isolamento.

Die Sehnsucht ist der Schmerz der Nähe des Fernes

M. Heidegger – «Wer ist Nietzsches Zarathustra?»


Heidegger e i Public Image Ltd

Leggendo Essere e Tempo sto provando emozioni simili a quelle che provai quando ascoltai per la prima volta Second Edition: sconcerto ed immediata sensazione di smarrimento…seguite, dopo la tentazione del rifiuto, dalla volontà di proseguire il cammino….verso la foresta dello stupro di “Poptones”, verso il rifugio di Todtnauberg. Hindsight, Umsicht…non-chiaro, no?

 


Fenomenologia di Mara Venier

È domenica. La mattinata è trascorsa in solitudine tra lenzuola chiazzate di cenere e sperma…poche ore fa ti sei sfogato, in preda a quel desiderio intriso di alcol caratteristico del rientro da una nottata dedicata al solito insoddisfacente divertimento. Hai la bocca cattiva, asciutta, senti gli occhi gonfi ma non il mal di testa. Quello viene agli altri, non a te. Percepisci che qualcuno sta cucinando, un sentore di soffritto che sotto altre circostanze ti piacerebbe ma che ora ti lascia indifferente. Quella sorta di indifferenza che stuzzica l’amarezza esistenziale. Ti rigiri nel letto, vorresti dormire ancora, forse per sempre, ma quando il sonno decide di assentarsi la sua decisione è sempre irrevocabile, proprio come quella famosa dichiarazione di guerra. Dopo l’olfatto, si risveglia l’udito: senti una voce nota, forzatamente acuta, gracchiante, televisiva. È la voce di Mara Venier che giunge a te dalla cucina, attraverso il corridoio e il disimpegno, sino alle soglie della tua camera. E subito realizzi che stai entrando nel mondo reale, quello della volgarità della gente comune, quel mondo che in generale non hai mai sentito tuo e dal quale hai sempre dovuto difenderti o estraniarti. Senti applausi, risate, ti sembra quasi di percepire l’antiestetico sudore che cola dalle tempie di quel signore che batte le mani come un idiota in mezzo al pubblico.

Che fare?

Squilla il telefono, sai già chi è. Il tuo amico, reduce dalla stessa serata. I toni bassi della sua voce sono eloquenti, conosci già presupposti e finalità della sua telefonata. Proprio per quello gli domandi semplicemente quanti soldi abbia in tasca. “Passo a prenderti tra un’ora, vedi di non perdere tempo, se no facciamo tardi, sono quasi le due”. Dopodiché ti alzi. Adesso, sì, hai una prospettiva concreta. Rischiando di strapparle scosti bruscamente le tende, poi tiri su la serranda. È solo un gesto. Che ora piova o splenda il sole non ha più alcuna importanza.


Immagine

Scorgevo da lontano la sagoma dei due uomini, sembravano indossare lo stesso giaccone e cappello, dal capo di uno esalava del fumo denso. Forse di pipa. Li osservai per qualche minuto, me li immaginavo parlare sommessamente, quasi senza ascoltarsi – non era certo quello il punto.

Ad un tratto uno si appoggiò all’altro, alzando stancamente una mano, forse in direzione del cuore. L’altro lo abbracciò, come per proteggerlo.

Ma ormai non c’era più bisogno di niente.


Johann H. W. Tischbein – Der lange Schatten

 

a proposito di me, Johann Caspar Schmidt, Andrej Efimjc Ragin et al…